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media exist to invest our lives with artificial perceptions

(Marshall McLuhan)

Terzo passaggio

Chiara Canali

2015

Terzo Paesaggio

La Street Art è una forma di espressione artistica a cavallo tra arte ufficiale e subculture o contro-culture urbane. Ci sono artisti che insistono a praticare l’arte di strada rivendicando fieramente l’anonimato e altri che invece compiono invece un ingresso nel sistema ufficiale dell’arte. Altri ancora continuano a cavalcare i confini tra i due mondi, dimostrando come questo linguaggio sia una vera e propria arte di frontiera, come l’aveva già definita Francesca Alinovi: “L’attuale arte d’avanguardia, più che sotterranea, è arte di frontiera; sia perché sorge, letteralmente, lungo le zone situate ai margini geografici …, sia perché, anche metaforicamente, si pone entro uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed élite, bianco e nero (alludo al colore della pelle), aggressività e ironia, immondizie e raffinatezze squisite”.
Il rapporto tra Writing e mondo ufficiale mette in campo questioni sociali e storico-culturali più ampie, al di là del pure valore estetico dei lavori.
Negli ultimi tempi le amministrazioni locali o le istituzioni artistiche hanno individuato il Writing e la Street Art come un vero e proprio strumento per riqualificare aree degradate della città o abbellire muri grigi e deturpati. Così è stato a Parma, che per il secondo anno ha preso vita il progetto Parma Street View, festival di Street Art Festival di Street Art e Urban Art volto alla riqualificazione estetica di spazi e muri della città con il linguaggio dell’arte di strada.
Quest’anno la scelta è ricaduta sullo street artist Pao che è intervenuto sul muro perimetrale della Pensilina Toschi, nel cuore nevralgico della città di Parma, luogo nodale per i passeggeri e i turisti diretti in centro storico e punto di ritrovo per i giovani delle scuole d’arte.
Il murales di Pao, intitolato Terzo Paesaggio in omaggio agli scritti di Gilles Clément, riflette sulle modalità con cui il paesaggio naturale possa innestare un vero e proprio ecosistema all’interno della città, suggerendo i valori del rispetto e della convivenza.
Il disegno riprende presenze faunistiche e floristiche proprie del contesto paesaggistico della provincia di Parma. Su uno sfondo verde senza soluzione di continuità, l’artista si soffermerà su specie animali e vegetali tipiche della campagna parmense, inserendo alberi, uccelli, fiori, insetti che brulicano nel tratto urbano del torrente La Parma.
All’interno di questo ecosistema naturale compaiono anche elementi artificiali, come residui di lattine o di bottiglie di plastica, mozziconi di sigarette e altri resti sintetici, tra cui un anello di plastica delle confezioni di lattine al collo di un pettirosso, a dimostrare come la civiltà odierna ha violato tutte le leggi, tutti gli equilibri, tutti i ritmi della natura, trasformando il pianeta in un’immensa discarica.
Con il suo Terzo Paesaggio Pao rappresenta un moderno Eden in cui la natura progressivamente si riappropria del suo spazio vitale via via sottrattole dalla civilizzazione, soprattutto di quegli spazi urbani e cittadini abbandonati o trascurati dall’uomo, e ritorni ad essere protagonista del paesaggio antropico.

Dolcetto o scherzetto?

Chiara Canali

2015

Dolcetto o scherzetto?

Nella tradizione anglosassone Halloween è la festa che si celebra ogni anno la sera del 31 ottobre, vigilia di Ognissanti, per esorcizzare le ancestrali paure del culto dei morti.
In questa festa i bambini, mascherandosi da mostri, vanno di porta in porta chiedendo dolciumi con la famosa filastrocca “Trick-or-Treat”, italianizzato in “Dolcetto o Scherzetto”.
Nel tempo questa tradizione, con tutto il corollario di zucche e candele, è diventata un rituale Pop che si è esteso a tutte le latitudini, Italia compresa, perdendo le sue originarie caratteristiche macabre per assumere tratti carnevaleschi.
Non poteva esserci titolo migliore per questa mostra personale – inaugurata proprio il 31 ottobre – di Pao, street artist la cui cifra stilistica consiste nella rivisitazione del grigio e opprimente ambiente cittadino in un’allegra chiave Pop.

Dolcetto o scherzetto, si diceva, e in questa mostra Pao li rappresenta entrambi, a partire da Dolcetto, nome del tenero epigone dei pinguini panettoni-dissuasori di sosta che hanno reso celebre l’artista nei suoi primi anni. Accanto a Dolcetto troviamo i suoi fratellini El Ghisa e Browny, ultimi esempi di una linea autoriale assai distintiva e ancora fervida, sempre improntata all’ironia e al rovesciamento.
Ma Pao in questa mostra realizza anche dei trompe l’oeil tridimensionali a parete, come nel caso dei Donuts o delle Strutture, giocando arditamente con forme che appaiono concave pur essendo in realtà convesse, oppure presenta immagini piane a pavimento proiettate in 3D, come nel caso della scacchiera bianca e nera di Black Hole, prototipo di tappeto in cui sembra essere risucchiati in un imbuto diretto in un’altra dimensione spaziale.
Nelle calotte sferiche Pao sfrutta l'illusione ottica di un gioco di linee parallele e ortogonali, che diventano curve e convergenti, determinando un rovesciamento percettivo tra l'interno e 
l'esterno della figura.

Con questa sua ricerca l’artista integra nella sua tradizionale visione, giocosa e immediata, che potremmo definire “dolcetto”, una riflessione più matura e disincantata sul fenomeno della distorsione percettiva rispetto al punto di osservazione dello spettatore e, dunque, sulla percezione illusoria e fallace della realtà, vero e proprio “scherzetto” per lo spettatore.
Lo stesso Gombrich affermava che le parti di una scena dipinta appaiono muoversi e deformarsi nelle relazioni spaziali man mano che l’osservatore si muove rispetto al quadro. Questi cambiamenti non vengono notati in condizioni normali a causa di un problema di attenzione. Pao alza l’asticella dell’attenzione a un grado più alto, proponendo lo sviluppo della proiezione di un oggetto regolare come il cubo nelle opere Punto interrogativo e Regalo. Quelle che, osservate da un certo punto di vista, sembrano delle rappresentazioni di cubi sono in realtà dei triedri a tre facce, che cambiano continuamente il significato e l’orientamento della visione secondo la posizione che assume lo spettatore nello spazio.

Pao compie così nel mondo fisico continue distorsioni ottiche che, pur strizzando l’occhio alle composizioni paradossali di M. C. Escher e riecheggiando le attuali immagini virtuali delle grafiche al computer, non rinunciano mai all’allegra e spensierata matrice propria dell’artista.
In questo modo Pao sembra avverare, in modo tangibile e in tempo reale, la “Teoria dell’Arte” di Friedrich Schelling, utilizzando forme finite che, tuttavia, contengono infiniti significati per ogni diverso individuo che le guarda.
Lontane da un mero divertissment, le opere cambiano, si svelano e si rivelano in base al punto di vista dello spettatore e basta un passo in un verso o nell’altro per cambiare completamente il senso della rappresentazione di ciò che si vede, in quello che si configura come uno straniante e ipnotico balletto visivo.
Anche questa volta Pao si dimostra artista aperto a vari livelli di lettura e le sue opere sconfinano da un’interpretazione più semplice e immediata a riferimenti intellettuali più alti e colti.
La mostra “Trick-or-Treat” prende il meglio della recente evoluzione dell’artista e ci invita a seguirlo passo dopo passo in uno scambio continuo tra “realtà” e “finzione” nella progressiva presa di coscienza che nulla è come sembra a prima vista e, come già affermava Marc Augé, la finzione è più potente della realtà stessa e a volte la modella.

Black Hole fun

Jacopo Perfetti

2015

Black Hole Fun

Una mostra che svela il lato oscuro del divertimento, tra prospettive vertiginose, ciambelle dopate e buchi neri.


In WarGames, film culto del 1983 diretto da John Badham, David J. Lightman è un adolescente americano, figlio dell’America post shock petrolifero, che alla scuola preferisce i video games e che cerca di far colpo sulle ragazze grazie alle sue abilità da proto-hacker. Un giorno, mentre cerca di introdursi nel computer della casa di videogiochi Protovision, si connette a un supercomputer, chiamato WOPR (War Operation Plan Response), progettato per valutare azioni e contromosse in caso di un eventuale attacco missilistico russo all’America. Pensando si tratti soltanto di un gioco, David, inizia una partita a Guerra Termonucleare Globale contro WOPR il quale, non essendo in grado di distinguere la realtà “virtuale” da quella “reale”, risponde alle mosse di David segnalando un attacco nucleare imminente e preparandosi per una terza guerra mondiale. A pochi istanti dal lancio dei missili tuttavia, David riesce a salvare la situazione, ordinando al sistema di giocare a Tris contro se stesso e, come la gran parte dei film di fantascienza anni Ottanta, anche WarGames si chiude con un lieto fine lasciando spazio a una morale ben riassunta dal suo claim: L'unico modo per vincere una guerra nucleare è... non farla!

A trent’anni di distanza però, il film nasconde una grande verità che oggi ci riguarda tutti e che sta alla base del tema di questa mostra. La distanza tra quello che facciamo e le conseguenze delle nostre azioni è sempre più ampia. Come dei moderni David J. Lightman, ogni giorno ci sediamo davanti al computer senza renderci conto di cosa sta dietro al nostro divertimento. Di quale sia l’impatto delle nostre abitudini sul mondo. Pensiamo alla produzione in serie del cibo che ha ormai assunto dinamiche da prodotto di massa. Si è passati da una logica in cui l’uomo era produttore diretto del cibo che consumava e quindi aveva piena consapevolezza della sua origine, fino a un estremo in cui l’uomo è divenuto consumatore inconsapevole di dove e come il cibo che consuma viene prodotto, aumentando esponenzialmente la distanza tra oggetto consumato (cibo) e soggetto consumatore (uomo). Non ci rendiamo più conto della profondità di quello che ci circonda. Il Black Hole Fun qui interpretato da Pao, ci riguarda tutti e o ne prendiamo consapevolezza al prima oppure rischiamo di venirne inghiottiti.

Fortunatamente anche in questo l’arte può esserci di aiuto. Il compito dell’arte è infatti quello di aprirci gli occhi, di mostrarci quello che noi esseri-non-artistici non abbiamo la capacità di vedere. Spesso scioccando, a volte irritando ma senza mai perdere quella forza comunicativa che contraddistingue ogni artista. Come il genio di Schopenhauer, l’artista vede quel che nessun altro riesce a vedere e ce lo ripropone sotto forma di performance, tele, sculture o, come nel caso di Pao, di un mix pop che fonde arte, design e creatività. E la sua genialità sta proprio in questo. Nella capacità di vedere, in oggetti apparentemente ordinari, qualcosa di unico e assolutamente straordinario. Qualcosa che chiunque altro non riesce a vedere. Passando per paesaggi urbani di una città come Milano, milioni di persone vedono quotidianamente i dissuasori della sosta a forma di «panettone», e nessuno ci vede altro al di fuori di quello che l’oggetto è in sé: un dissuasore della sosta. Pao invece ci ha visto un pinguino e ha lanciato così una delle forme d’arte pubblica più interessanti in Italia. Ovviamente la sua visione non si è fermata al dissuasore della sosta. Negli anni ha visto il ritratto dell’imperatore Rodolfo II a opera del pittore Giuseppe Arcimboldo in un silos tra le campagne piemontesi. Ha trasformato semafori in palme, lampioni in margherite e poi in Chupa-Chups, pompe dell’acqua in cani, cestini in pellicani, scivoli del marciapiede in fette di limone, tombini in finestre, transenne in zebre, sedie in bocche aperte, paracarri in squali e bagni pubblici in lattine di zuppa Campbell’s.

In questa mostra, Pao ci racconta una società ingrassata ironicamente rappresentata dalla serie Donut 01, 02, 03, 04 dove grosse ciambelle dopate ingannano lo spettatore trasformando il concavo in convesso. Si diverte a riprodurre la tridimensinalità immaginaria di oggetti in due dimensioni. Gioca con la prospettiva e fa sprofondare le persone in vortici in bianco e nero. Accosta soggetti bucolici e naturali al caos colorato di tele come Pacific Trash Vortex dove un vortice di rifiuti con improbabili nomi di marche inventate sembra schizzarci addosso. Il suo Black Hole Fun è una riflessione ironica e profonda sui nostri tempi che ci fa andare oltre la luce iridescente del nostro monitor per svelarci quello che ci sta dietro.

Over the wall

Titolo: Over the wall - Portraits of street artists
Editore: Altra Linea Edizioni
Autore: Livio Ninni
Anno: 2014
Pagine: 82 colore
ISBN: 978-88-98939-03-9
Testi: italiano/inglese

Ninni è un giovane fotografo torinese con un breve passato da writer che in pochissimo tempo è diventato un artista emergente rispettato dalla comunità degli street artisti torinesi e italiani. Ha la fortuna di vivere in quella che è diventata una delle capitali del muralismo artistico europeo, in cui ha potuto incontrare 66 artisti tra i migliori della scena italiana intenti a produrre più di 70 "pezzi" sui "muri" del vecchio zoo. L'idea è stata quella di vedere cosa c'è "oltre i muri" che quegli artisti dipingono, quali sono le loro storie, ricostruendo il loro mondo e la loro psicologia. Prende in questo modo vita il progetto "Over The Wall": tra il 2012 e il 2013 Livio Ninni dà forma alle loro narrazioni esistenziali con lo strumento che gli è più congeniale, la fotografia.

Pao l'ho conosciuto

Giuseppe Culicchia
2013
Neoplasia, Torino


Pao l'ho conosciuto tanti anni fa, era venuto una notte a Torino e aveva riempito di pinguini largo IV Marzo, ricordo che vedendolo all'opera ridevo come un bambino, e la mattina dopo, tornato sul luogo della mutazione genetica dei dissuasori anti-parcheggio, avevo pensato: ma guarda che regalo, elementi di arredo urbano che prima imbruttivano questo pezzo di città e che adesso invece lo rendono più bello. Non so di preciso quanto siano rimasti i pinguini in largo IV Marzo, so però che a un certo punto sono spariti, prima uno, poi un altro, poi tutti. Rimossi dal Comune? O da qualche collezionista? O da qualcuno che semplicemente voleva portarsi un pinguino a casa? Non lo so. Sta di fatto che adesso, ogni volta che passo da quelle parti, ripenso alla notte in cui li vidi nascere, e provo una grande nostalgia. Insomma: alle opere di Pao ci si affeziona, almeno questo è l'effetto che hanno su di me. E non credo che sia così scontato affezionarsi, quando si tratta d'arte contemporanea. Ma non c'è solo questo aspetto. Da parte mia non sono un critico d'arte e però sono sempre stato affascinato dalle città, dalla loro vitalità e dalla loro capacità di cambiare ogni giorno, e Pao è parte di quel cambiamento: una sorta di graffitista-urbanista, capace di modificare spazi pubblici e di cambiare il nostro modo di guardarli. Una volta, riguardo ai suoi pinguini, mi ha raccontato: "I primi li ho fatti a Milano dalle parti di Piazza Sempione, dove c'è l'Arco della Pace. La mattina dopo sono andato a fotografarli, e mi sono imbattuto in una giovane mamma col suo bambino, che quando li ha visti è corso ad abbracciarli: quella per me è stata la critica migliore che potessi ottenere. Anni fa ho deciso di colorare un muretto grigio in uno slargo nei pressi di un asilo, dove spesso vedevo giocare dei bambini. Ho fatto un primo pezzo, poi ho chiesto ai commercianti della zona se erano d'accordo sul fatto che andassi avanti. Beh, alla fine hanno perfino voluto raccogliere loro i soldi per comprarmi i colori di cui avevo bisogno, talmente erano contenti della trasformazione di quel muretto".

Eccola qua, l'urbanistica "dal basso" di Pao, capace di sfruttare forme già esistenti con le sue visioni e i suoi colori, rendendo meno anonimo e spersonalizzante il paesaggio urbano. Se Pao non ci fosse, le nostre città sarebbero più tristi.

Grazie Pao!

Me lo ricordo bene

Stefano Bianchi 

2013 

Neoplasia, Torino.

Stefano Bianchi ME LO RICORDO BENE quando a un certo punto "l'arte paoista" ha "svoltato". Immagino dopo aver detto ai suoi affezionati pinguini "Tranquilli, non preoccupatevi, che tanto torno subito", nel 2007 Pao prende parte alla collettiva Street Art Sweet Art in cartellone al PAC di Milano. Esponendo Il velo di Maya che lo ritrae sul punto di bypassare la superficie della tela, mette sinceramente a nudo introspezioni che non sussisterebbero se collocate all'esterno. Dove, al contrario, a dare spettacolo c'è una moltitudine Pop di pinguini estroversi, colorati, impattanti. In seguito, partendo proprio da quel velo, Pao non solo delinea forme curve e morbide ma si mette alla prova sperimentando inusuali prospettive, ispirato com'è dagli studi geometrici dell'incisore e grafico olandese M. C. Escher.

Al proverbiale Pao, quello gioioso e giocoso dei "panettoni" che colorano il grigiore metropolitano, si contrappone e mixa il Pao "dark" come un film di Tim Burton, che ritrae su una superficie concava a sfondo Optical una bimba dagli occhi sbarrati che nel giorno del compleanno ha appena accoltellato il suo orsacchiotto. Bene. Osservando le sue Neoplasie, non posso che ripensare a quella piccola assassina di sogni infantili. Una Freak. Come sono convinto siano Freaks, ironico/riflessive, le ultime creature da galleria d'arte e da strada che (sur)realisticamente Pao ha concepito nel nome di questa società canaglia che tutto ibrida, muta e corrompe al solo scopo di mandare in tilt l'ecosistema del nostro sciagurato MondoTondo (altra mostra illuminante, nel curriculum di Mr. Paolo Bordino).

E i pinguini? Ci sono, iconici più che mai, anche stavolta. Scrutando il cielo, però, scoprono fra le nuvole strane anomalie meteorologiche. Protuberanze sferiche in assetto da squadriglia aerea. E allora? Meglio nascondersi sotto le fresche frasche in attesa che giunga l'Apocalisse; o camuffarsi da James Bond, per tentare di sconfiggere il destino cinico e baro. E sempre dentro e fuori, tra colpi d'occhio "magrittiani", mutanti genetici (l'Armadillo da Golf, la sedia Red Mouth sbadigliante e linguacciuta, il Gufo Goffo Rosso...), un "ready-made" come la Zebra stradale (nello stile di Marcel Duchamp, ma in vena di scherzi), fiori fumettosi e pixelati, giganteschi Chupa Chups, progetti e brevetti di alieni, coccinelle neoplastiche, insetti-bomba, mine-virus, tartarughe da calcio, arance e limoni geneticamente modificati per la goduria di baskettari e tennisti, quest'Arte Paoista (lo scrivo a lettere maiuscole e senza virgolette, stavolta) non la smetterà mai d'evolversi. Per dare a Pao quel che è di Pao: l'unicità. 

SAM - Street Art Museum

Titolo: SAM - Street Art Museum. La rinascita dell'ex zoo di Torino
Curatore: BorderGate
Testi: Carmelo Cambareri
Anno: 2013
ISDN: 978-88-908585-0-5

Catalogo con testi e immagini di SAM, Street art Museum, il progetto di riqualificazione urbana realizzato nel 2012 presso l'ex zoo comunale di Torino dall'associazione culturale Border Land.

StreetArt in Germany

Titolo: StreetArt in Germany
Di: Timo Schaal
Editore: Riva
Anno: 2013
Pagine: 191
Lingua: english
ISBN Print: 978-3-86883-337-9
ISBN E-book: 978-3-86413-420-3

Architettura e Pubblicità

Titolo: Architettura e Pubblicità. Pubblicità e architettura.
A cura: Francesca Zanella
Editore: Scripta edizioni
Anno: 2012
Pagine: 239
ISBN: 978-88-96162-484

Lo stato dell'Arte

Titolo: Lo stato dell'Arte. Catalogo della mostra Biennale di Venezia 2011
Curatore: Vittorio Sgarbi
Editore: Istituto Nazionale di Cultura
Anno: 2012
Pagine: 1264
ISBN: 8857211596

Lecco Street View

Titolo: Lecco Street View. Street art and writing
Curatore: Chiara Canali
Editore: Silvana Editoriale
Anno: 2012
Pagine: 224

intralci

Titolo: intralci 1961-2011. Dieci artisti scuotono la Franciacorta
Curatore: Jacopo Perfetti
Editore: Skira
Anno: 2011
Pagine: 96
Lingua: Italiano, English

Ritratto il racconto rotondo

ivan

2010

Mondotondo, Milano. 

poesia per paolo che spancia le onde

la poesia talvolta colma le giravolte
lascia come un soffio
lieve
il passo due strade più avanti

pare come curare quella febbre di restare
accarezzati per ore una città
la brina che s'alza
la notte che va
e creder davvero un tempo
che sei oggi accanto
quel sognare
tanto portento da fare spavento
la pancia rotonda spesso racconta
che l'incanto del restar solo un passo oltre
è ricordarsi già ora ancora mocciosi
che si spreme colore
come passeggiare primavera
le more
e presto l'aurora

non ho mai visto tanto tepore
nel disegnar parole
se la pazzia mi ricorda che colori
una balena sdraiata al sole
un maremoto che spancia le onde
l'arte che s'accompagna la sorgente e le sponde
ti coglie la mano
e d'incanto si faranno giganti i bambini
s'ora non so più trattenere
la poesia ritratto
paolo e i pinguini

La rottura della quarta parete. Una conversazione con PAO

Federico Sardella

2010

Mondotondo, Milano. 

F.S.: Partirei dall'oggi, per poi andare indietro domandandoti della nascita dei pinguini. Vorrei che tu mi parlassi del modo in cui ti muovi e di qual è il tuo atteggiamento nei confronti del fare. Allestire una mostra in una galleria d'arte che in precedenza ha ospitato opere di Mario Sironi o di Piero Guccione mi sembra una novità assoluta all'interno del tuo percorso, sia artistico sia espositivo...

PAO: Questa è per me una nuova sfida, che mi permette di proseguire un percorso iniziato da tempo. Mi sono sempre trovato di fronte a luoghi sconosciuti da scoprire, a muri da abbattere (o da decorare) e a sentieri inesplorati da percorrere... Quando ho dipinto per la prima volta per la strada non ero un writer, eppure lì mi sono messo a dipingere, dedicandomi per anni a questa attività, senza mai sentirmi un graffitaro. Oggi entro in galleria, ma non lo faccio da pittore tradizionale, ci entro per quello che sono, portandomi appresso tutto ciò che ha scandito il mio procedere, mantenendo quell'approccio fresco rispetto al fare, che sento come mio e che mi porta a realizzare qualcosa che prima di tutto mi stupisca e mi emozioni. Questa grande novità del lavorare per poi esporre le mie opere in una galleria, forse, è una sfida maggiore di quanto non lo fosse l'intervento per la strada... e questo nuovo impegno mi ha molto motivato, portandomi a dare più di quanto mi aspettassi: parto da autodidatta, quello che so fare è il frutto della pratica e dell'esperienza. Mi sono sempre trovato a operare senza avere le spalle coperte e, spesso, senza, nessuna esperienza. Lavorando ho imparato a lavorare e dipingendo ho imparato a dipingere. Nel momento in cui ho un'idea e scelgo di darle una forma è come se dovessi imparare a farlo, affinando la tecnica strada facendo. Non a caso, i primi pinguini che ho dipinto sui paracarri di cemento erano mostruosi, improvvisati e appena abbozzati.

F.S.: Forse questo dipendeva anche dal fatto che dovevi dipingere con le bombolette molto velocemente, per non essere colto sul fatto... Gli ultimi pinguini che hai realizzato, a distanza di quasi dieci anni dai primi, sono tecnicamente impeccabili. Come se tu li avessi ripuliti senza raffreddarli o tradirli.

PAO: Gli ultimi pinguini risentono del passaggio dall'esterno all'interno. Quello che funziona in strada non può funzionare nella sala chirurgica con pareti bianche che alle volte è la galleria. Le pareti bianche tendono ad accentuare eventuali difetti e imprecisioni, la strada è più permissiva e nel frastuono di colori e umori che la distinguono i toni si smorzano. Un'idea buona, indipendentemente dalla raffinatezza della sua forma, viene recepita e raccoglie consensi. In strada vincono le intenzioni sul prodotto finale, almeno per quanto riguarda quello che ho fatto per migliorare lo spazio in cui mi sono trovato a intervenire...

F.S.: Proprio per questo motivo credo tu abbia sempre contestato le multe che ti sono state date per imbrattamento?

PAO: Esatto! Quello che faccio non può essere considerato imbrattamento ma, semmai, decorazione non autorizzata... Non ho mai sporcato i muri o deturpato l'arredo urbano, così come non ho mai fatto tag o graffiti. Non amo le etichette e non mi sento di appartenere ad alcuna tendenza. Certo, ho molto lavorato per la strada, ma sentendomi un outsider... Anche ora che dipingo nel mio studio, non mi sento un graffitaro che tradisce la strada e si prostra al mercato. Il mio modo di vedere le cose non prevede limitazioni e credo che le distinzioni di genere siano riduttive... non mi sento di appartenere a nessun genere e sarebbe assurdo se, di colpo, avendo sino a poco tempo fa dipinto pinguini sui paracarri mi limitassi solo a questo, levandomi la possibilità di usare la tela o altri supporti.

F.S.: Te lo ricordi il primo pinguino cui hai dato vita?

PAO: Cerco che me lo ricordo. Era un pinguino primordiale, riconoscibile come tale ma appena abbozzato. Nato da un panettone collocato in una via chiusa, abbastanza nascosta. Era notte... non avevo mai usato una bomboletta spray prima di allora, ne avevo quattro con me, comprate in un negozio che mi aveva suggerito un amico writer. Non avevo ancora alcuna padronanza del mezzo e per sottolineare i tratti distintivi del pinguino ho addirittura impiegato un pennarello indelebile nero.

F.S.: Nonostante il tutto fosse improvvisato, mi hai detto che la cosa era più che meditata, generata da un fumetto che avevi disegnato, dedicato a una tua amica che, durante un gelido capodanno a Berlino, si era talmente coperta di strati di vestiti da sembrare una sorta di pinguino, o di paracarro forse. Esiste una versione cartacea del pinguino, dunque? Esistono dei disegni preparatori? Com'è avvenuto il passaggio dalla carta alla strada?

PAO: Esiste un quaderno con dei disegni a pennarello di questo personaggio imbacuccato che lentamente si trasforma in un pinguino. Non so come il passaggio dallo schizzo al panettone sia avvenuto, non l'ho cercato, è stata un'illuminazione. Un giorno ho visto dei paracarri con delle macchie di colore, davanti a un negozio, e in quella occasione mi è venuta l'idea... ci ho pensato qualche giorno e poi ho iniziato a dedicarmi alla insistente nobilitazione di queste grigie e gelide presenze.

F.S.: Oltre a questo desiderio di decorare e colorare la città, che cosa ti ha spinto a dare vita a veri e propri eserciti di pinguini, che per alcuni anni hanno affollata e caratterizzata Milano?

PAO: All'inizio, uno degli obiettivi che mi ero posto era quello di comparire sul "Corriere della sera", nella rubrica "La foto del giorno". Cosa che poi si è verificata in qualche occasione...

F.S.: Dopo quanto tempo dalla realizzazione del primo pinguino è arrivata "La foto del giorno?" Quali sono stati i primi riscontri che hai avuto circa quello che stavi facendo?

PAO: I primi articoli comparsi su di me sono stati casuali e tutt'altro che cercati. Mi sono state chieste delle interviste per "Elle" e per "Max"... e "La foto del giorno" è arrivata dopo pochissimo tempo. Mi sono accorto da subito che chi mi vedeva dipingere sui panettoni o chi incontravo il giorno dopo mentre fotografavo ciò che avevo fatto, era piacevolmente stupito che da ciò che si trovava di fronte. Le reazioni della gente erano positive, di interesse e di apprezzamento, perché andavo a intervenire su oggetti di cemento, brutti e scomodi, di proprietà pubblica, facendo qualcosa di piacevole, di simpatico, che non può che strappare sorrisi. La città è aggressiva e ostile nei confronti dei suoi abitanti: camminiamo su marciapiedi stretti, soffocati dallo smog, sollecitati da una quantità di immagini pubblicitarie invasive... In quegli anni di pinguini a oltranza, credo di avere anche soddisfatto alcuni bisogni dei cittadini, dando un po' di colore e di vita a queste presenze, tanto che ho ricevuto messaggi di stima di ogni tipo.

F.S.: I tuoi pinguini sono stati e sono immagini che si sovrappongono o che affiancano altre immagini. Qual'è il loro rapporto con il contesto urbano, quale quello con le insegne pubblicitarie che invadono le nostre vie e il nostro orizzonte?

PAO: I graffiti e gli interventi di street art esistono là dove c'è la pubblicità. Le due realtà sono in conflitto ma non si escludono, l'una vive dell'altra e nell'altra, democraticamente...

F.S.: Vorrei cercare di cogliere il modo in cui tu guardi e vivi il tessuto cittadino. Sono portato a pensarti osservare un bagno pubblico, uno spartitraffico, un semaforo o una qualunque struttura esistente con l'occhio di che la vede già trasformata in qualcosa di altro...

PAO: Come è successo per pinguini, le idee alle volte arrivano da sole. Gli interventi più riusciti sono dettati da forme che automaticamente mi suggeriscono nuove forme, generate da una sorta di metamorfosi della situazione di partenza. Come si trattasse di dare vita a immagini associate... Una volta in piazza Arcole, a Milano, c'erano ventitre panettoni tutti in cerchio e vedendoli mi sono messo a saltare dalla gioia, avendo trovato una situazione ideale dove intervenire. Tra questi, poi, uno rotto, accasciato a terra, mi ha suggerito l'idea dell'efferato delitto ai danni di un giovane pinguino compiuto da due mostri sconosciuti.

F.S.: Se, in questo caso, il supporto ha dettato il naturale evolversi di un'idea in favore di una forma o di un'immagine, sarà ben diverso l'approccio che avrai lavorando su tela. La tela è un luogo di partenza neutro, che non porta in sé alcun elemento guida se non alcune memorie legate al passato della pittura, memorie facilmente eludibili, visto l'indiscusso candore che distingue questo tipo di superficie.

PAO: Il momento cruciale di passaggio dal supporto casuale alla tela è stato dettato dall'invito a partecipare alla rassegna "Street Art Sweet Art", organizzata al PAC, a Milano, nel 2007. In quell'occasione, mi sono domandato: "Ha senso portare pari pari quello che faccio per strada dentro un museo? O forse mi si sta chiedendo di iniziare a fare dell'altro e di affrontare una nuova sfida?". La strada è la strada: uno spazio con le sue regole stilistiche e di comportamento, governato da leggi ben precise. Quando mi hanno invitato a entrare in un museo mi sono trovato a dovere affrontare una superficie bianca, pensando che tutto quello che sino ad allora avevo realizzato non fosse valido. Per strada, quasi sempre, ho scelto di intervenire su supporti tridimensionali preesistenti, passando alla tela ho subito avvertito che il supporto era troppo lontano da me, e di conseguenza mi sono mosso. Ho cercato di superare la superficie piana sia a livello concettuale sia effettivamente... L'opera che ho presentato al PAC è titolata Il velo di Maya: il soggetto oltrepassa la superficie della tela e uscendo dal quadro accede alla realtà più vera e profonda possibile, sino a giungere utopicamente all'essenza delle cose.

F.S.: Da qualche tempo, la pittura è una realtà con la quale ti confronti quotidianamente, anche grazie all'occasione di questa mostra. Che cosa ti piace maggiormente di questa pratica? Come ti trovi a lavorare al chiuso nel tuo studio?

PAO: Per strada ho sempre fatto cose molto colorate ed estroverse. Da quando dipingo in studio mi sono reso conto che le mie opere sono diventate più introspettive. Uno dei motivi per cui mi piace molto dipingere in un luogo chiuso, raccolto e protetto, ora, è la possibilità che ho di lavorare con calma, prendendomi tutto il tempo che mi occorre. Il lavoro in strada è legato a una certa clandestina immediatezza, che mi ha portato alla riconquista di un territorio che ci dovrebbe appartenere e che invece ci soffoca. Passando in studio, senza alcun rimpianto, in qualche modo, ho rinunciato alla poesia e alla libertà assoluta e fuori della legge che caratterizza il dipingere per la strada, rimanendo però sempre fedele alla mia scelta iniziale di rappresentare un mondo governato dalla fantasia.

F.S.: Vorrei che tu mi parlassi di questo tuo mondo e dei soggetti che lo popolano...

PAO: I miei soggetti nascono liberamente. In parte attingo dalle immagini che ho assimilato durante la mia infanzia e, in parte, da quelle che si sedimentano dentro di me giorno dopo giorno. Penso che un quadro debba trasmettere qualcosa e aggiungere qualcosa... La fantasia e la creatività devono essere poste al servizio della società, per migliorare la vita, la mia e quella di chi mi circonda. Quello che la mia pittura vuole è andare oltre la semplice visione delle cose. Non dipingo mai la realtà com'è: con la fantasia o con l'ironia la interpreto e la stravolgo, cercando di andare oltre la percezione solita e razionale. I personaggi che abitano le mie opere sono vari. Certamente compaiono i pinguini... affiancati da numerosi soggetti, sempre innocenti, appartenenti al mondo vegetale o a quello animale... Si tratta di forme morbide, semplificate e tonde, che trasmettono sensazioni e sentimenti positivi. Il mondo è sufficientemente brutto, ed è mia intenzione sottolineare il meno possibile questo suo aspetto. Nei miei quadri racconto e rappresento un altro mondo, retto da regole che sono io a dettare. Basta volerlo e d'inverno i rami degli alberi possono essere carichi di gemme... e dipingere mi permette di esplorare questi territori...

F.S.: Dipingere è per te, mi pare di capire, anche un'operazione di esperienza e conoscenza?

PAO: Dipingere mi consente di esplorare un mondo meraviglioso, un mondo che forse sono io stesso a generare. Ogni tanto mi sento come se avessi la chiave di accesso a un "paese delle meraviglie" pronto ad accogliermi ogni volta che ne sento il desiderio, un paese che consente la fuga dal grigiore dilagante in favore di luoghi assolati e ricchi di colori.

F.S.: Quando hai iniziato a dipingere pinguini sui paracarri, clandestinamente e in situazioni al limite della legalità, avresti mai pensato di arrivare a esporre in galleria, con la conseguente ufficializzazione del tuo ruolo? Come ci sei arrivato? Quali sono le tappe fondamentali del tuo percorso?

PAO: Io affronto quello che mi succede. Gli obiettivi che mi pongo sono, in genere, raggiungibili in tempi relativamente brevi. Non ho mai ipotizzato che da grande avrei fatto l'artista... ho sempre pensato di essere al servizio delle situazioni e ho cercato di affrontarle al meglio. Dopo il liceo, mi sono iscritto all'università, che non ho però frequentato, favorendo un corso per tecnico del suono. Da questo sono passato a fare il servizio civile, trovandomi a lavorare con la compagnia di Dario Fo e Franca Rame. Con loro ho avviato un rapporto che mi ha portato ad aiutarli in qualche spettacolo... Mi hanno invitato a fare il macchinista senza che io avessi mai fatto nulla del genere, insegnandomi un mestiere. Poi, di conseguenza, ho seguito un corso per costruttori di allestimenti teatrali al Teatro alla Scala. Da costruttore di scenografie, intanto iniziavo già a dipingere per strada, sono arrivate le prime commissioni per decorazioni e allestimenti. Una scelta di vita, una situazione o un nuovo lavoro mi hanno naturalmente portato ad altro, senza che io questo altro necessariamente lo cercassi. Vengo dalla strada e il mio approccio è quello dell'operaio che è disposto a fare tutto, inventandosi tutto pur di portare a termine la missione. Bruno Munari diceva che l'artista deve sapere anche progettare l'insegna per il macellaio. Condivido molto questo suo modo di pensare. L'artista deve sapere fare tutto e deve fare dell'arte un mestiere. Munari è un artista geniale, e ammiro il suo approccio che lo ha portato a concepire il design come opera d'arte alla portata di tutti, utile a tutti... Proprio per questo ho scelto di occuparmi anche di produzioni seriali, per mettere l'arte al servizio della gente, per raggiungere moltissimi individui e per rompere il più possibile le barriere.

F.S.: Il pinguino è diventato, per te, una vera e proprio cifra, un marchio riconoscibile e riproducibile, un soggetto che, assieme a pochi altri, hai saputo trasformare in oggetti d'uso, facendogli prendere posto su tazze e magliette, realizzando chiavi usb a sua immagine, proponendo la sua effige su un casco o su un lampadario... Mi sembra molto interessante questo aspetto del tuo lavoro e molto contemporaneo questo tuo atteggiamento.

PAO: Sarebbe bellissimo se, oltre a questi oggetti che produco, qualche amministrazione pubblica particolarmente spregiudicata desse avvio a una produzione seriale di bagni pubblici a mo' di lattina di PAO cola o di idranti, come quello che si trova nel giardino dietro il PAC, uno di pochi interventi che ho fatto e che non è stato cancellato o rimosso.

F.S.: Il tuo intervento su idrante, visibile dall'interno del PAC attraverso un'ampia vetrata, si si inserisce in un contesto eccezionale, vicino ai Sette Savi di Fausto Melotti... e osservando la scena non ci si può che domandare quale sia l'opera d'arte e quale l'intruso, ammesso che un intruso vi sia...

PAO: Ognuno di noi osservando un'opera d'arte è portato a recepirla in modo diverso. Quella che da un individuo viene letta come arte per un altro potrebbe essere spazzatura... È di pochi giorni fa la notizia dello sputo rinvenuto su una tela con tagli di Lucio Fontana esposta nella Galleria Nazionale d'Arte Moderna, a Roma. L'opera era sottovetro, di conseguenza nulla di grave, ma mi pare evidente che, per chi ha compiuto questo sfregio, Fontana era un intruso nel museo che stava visitando.

F.S.: Adesso che nomini Fontana e che penso al suo lavoro, al suo riuscito tentativo di oltrepassare la superficie della tela, ripenso anche a quello a cui prima accennavi circa il tuo desiderio di andare oltre la superficie, anche applicando elementi sporgenti sulla tela e utilizzando supporti concavi e convessi. Il passaggio dimensionale, dopo tutto, non è la cosa che anche tu cerchi?

PAO: In teatro, quando gli attori si rivolgono in modo diretto al pubblico, ignorando la barriera che separa le due condizioni e abbattendo il muro immaginario posto di fronte al palco attraverso il quale gli spettatori osservano la scena, si dà vita a un fenomeno noto come "rottura della quarta parete". Il passaggio dimensionale che cerco è quello che consente alle mie opere di gettarsi verso chi le osserva, permettendo simultaneamente a che ne fruisce di sprofondare in loro, sino a rompere la quarta parete...

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